Nel 1782, Herbinaux, un ostetrico belga, notò che in alcuni casi esisteva una prominenza ossea al davanti del sacro e che questa poteva causare fastidi durante il travaglio.
Si ritiene che questi sia stato il primo a descrivere una spondilolistesi, probabilmente del tipo completo, nella quale il corpo di L5 giace al davanti del sacro (cosiddetta spondiloptosi).
La spondilolistesi consiste nello scivolamento completo o in parte di una vertebra sull’altra.
Il termine, coniato da Kilian nel 1854, deriva dal greco σπόνδυλος che significa vertebra e ο̉λίσθησηις, che significa scivolamento su di un piano inclinato.
Il tipo di maggiore rilevanza clinica in soggetti al di sotto di 40 anni è quella nella quale la lesione è sita nell’istmo o nella pars interarticularis. Comunque, displasia e alterazioni dell’orientamento delle faccette articolari sono le cause più rilevanti nell’eziologia e molte altre condizioni permettono lo scivolamento di una vertebra su di un’altra. Questo è valido per il tratto lombare, sebbene la malattia possa localizzarsi anche nel tratto cervicale; pochi articoli esistono, invece, circa la localizzazione toracica.

Classificazione
Delle tante classificazioni esistenti, le due più comunemente usate sono quella di Wiltse e Rothman, su base anatomica, e quella di Marchetti e Bartolozzi, su base eziologica. La prima classificazione riconosce 5 tipi di spondilolistesi: tipo l displastica, a sua volta suddivisa in tre sottotipi: A. questo tipo presenta i processi articolari displasici a livello della listesi; questi sono orientati assialmente e spesso si associano a spina bifida. Questa condizione instabile permette lo scivolamento. B. questo tipo presenta i processi articolari orientati sagittalmente, di conseguenza la giunzione L5-S1 è instabile. C. altre anomalie congenite del tratto lombare (come la cifosi congenita) possono predisporre ad una spondilolistesi.
Il tipo II, istmico, consiste in un difetto di formazione dell’arco neurale, che si manifesta come lesione della pars interarticularis; se ne distinguono tre sottotipi: A. forma litica in cui vi è un primitivo difetto di ossificazione della pars interarticularis che viene sostituita da tessuto fibroso; in alcuni casi la mancata ossificazione può essere la conseguenza di ripetute fratture della pars che non guariscono correttamente, bensì evolvono in pseudoartrosi della pars. B. forma da elongazione ma con la pars intatta, in cui l’allungamento ed il conseguente scivolamento in avanti del corpo vertebrale soprastante sono dovuti a ripetute fratture della pars che sono evolute con adeguata riossificazione. C. forma traumatica, non congenita, ma il risultato di fratture traumatiche che coinvolgono la pars interarticularis.
Il tipo III degenerativo è dovuto ad un’instabilità intersegmentale di lunga durata; il tipo IV post-traumatico consegue a fratture acute del processo unciforme più che della pars; il tipo V patologico consiste in un indebolimento delle strutture ossee vertebrali (peduncolo, pars interarticularis, faccette articolari) provocato da malattie sistemiche o locali. Fra le possibili affezioni sistemiche responsabili vi sono: l’osteogenesi imperfetta, la malattia di Paget, la sindrome di Marfan, l’acondroplasia, la sindrome di Ehlers-Danlos e la neurofibromatosi; invece tra le malattie localizzate troviamo: la tubercolosi, le infezioni, le metastasi spinali.
La classificazione eziologica di Marchetti e Bartolozzi suddivide le spondilolistesi in due grandi categorie: dello sviluppo (high e low dysplastic) e acquisite, quest’ultime a loro volta suddivise in traumatiche, post-chirurgiche, patologiche e degenerative.

Incidenza
L’incidenza della spondilolistesi, a seconda degli autori, è del 5-6% nei maschi e del 2-3% nelle femmine. Aumenta con la pratica dei seguenti sport: tuffo 63.3%, pesistica 36.2%, lotta 33.3%, ginnastica 32.8% e judò 12% se praticati precocemente ( prima dei 7 anni).
La localizzazione, secondo Roche e Rowe, è maggiore a livello L5-S1 (82%), per ridursi agli altri livelli (L4-L5 11,3%, L3-L4 0.5%, L2-L3 <0.5%). Sintomi clinici
Spesso la severità della spondilolistesi non correla con l’intensità della sintomatologia algica. I sintomi cardine della spondilolistesi sono rappresentati dal Low Back Pain meccanico, che peggiora coi movimenti e migliora con il riposo, e l’irradiazione del dolore agli arti inferiori. I pazienti spesso notano un aggravamento del dolore durante i passaggi posturali (dalla posizione seduta a quella eretta). Meno frequentemente sono i seguenti sintomi: il Back Pain discogenico che peggiora con la posizione seduta e la flessione in avanti del tronco, il dolore faccettale che peggiora con l’iperestensione e la stazione eretta, e la claudicatio neurogena, da stenosi secondaria che spesso si associa.
Spesso si può osservare un difetto di andatura, ovvero per retrazione degli ischiocrurali presenti nell’80% dei pazienti, la gamba è rigida, il passo breve e si associa a rotazione pelvica. Talora la marcia è in punta e a ginocchia flesse. La scoliosi può associarsi nel 25-50% dei pazienti con spondilolistesi.

Diagnosi radiologica
Da un punto di vista radiologico, il primo esame è quello radiografico della colonna nelle proiezioni antero-posteriore, laterale obliqua e le radiografie dinamiche.
Le proiezioni antero-posteriore e laterale evidenziano un difetto di trasparenza della parte interarticolare (segno del cane col collare). La radiologia convenzionale permette anche di valutare il grado di spondilolistesi, definita, secondo Meyerding, di grado I, II, III, IV rispettivamente quando la sublussazione è di un quarto, metà, tre quarti, o dell’intera larghezza del corpo vertebrale sottostante.
La spondilolistesi può essere studiata meglio acquisendo scansioni TC di ridotto spessore, è importante valutare la formazione del callo fibrocartilagineo, possibile causa di stenosi del forame di coniugazione. È anche necessario individuare le eventuali lesioni degenerative e congenite (ipoplasia delle lamine e dei processi articolari, spina bifida) associate. Nella spondilolistesi la finalità dello studio TC è determinarne la causa: lesioni traumatiche, congenite, iatrogene, degenerative possono essere facilmente individuate.
La Risonanza Magnetica permette di evidenziare sia la spondilolistesi che l’eventuale spondilolisi (interruzione delle corticali ossee, ipointense), ma permette di studiare soprattutto la presenza di compressioni radicolari, l’ampiezza del canale spinale e le compressioni del sacco durale.
Trattamento

La maggior parte dei pazienti affetti da spondilolistesi possono essere trattati conservativamente. Infatti, soprattutto le forme di I-II grado rappresentano negli adulti una condizione benigna, dove la progressione dello scivolamento si ha solo nel 30% dei pazienti. Lo scopo del trattamento conservativo è quello di rinforzare la muscolatura del tronco per ridare stabilità alla colonna, rieducare il paziente a mantenere una postura adeguata. In fase acuta, quando il quadro clinico è dominato da una costante lombalgia, l’elemento più importante della terapia è un adeguato periodo di riposo a letto associato ad opportuna somministrazione di antinfiammatori e miorilassanti. Regredita la fase acuta si insegnerà al paziente ad eseguire esercizi isometrici per i muscoli del tronco, specialmente la muscolatura addominale, quella respiratoria ed esercizi attivi per la muscolatura degli arti superiori. Può essere utile anche l’impiego di busti ortopedici.

Se le peculiarità anatomo-patologiche del rachide lombo-sacrale degenerativo sono rappresentate dall’impegno radicolare (stenosi) e/o dall’instabilità (segmentaria o globale), non vi è dubbio che gli obiettivi del trattamento debbano essere la decompressione e la stabilizzazione. Nelle instabilità segmentarie la strategia chirurgica va quindi indirizzata allo studio della corretta strategia di strumentazione ed al raggiungimento della stabilità biologica, tramite artrodesi. L’instabilità del segmento di moto va risolta chirurgicamente con un intervento mirato a conseguire la stabilità definitiva biologica (artrodesi).
L’approccio classico per il trattamento della spondilolistesi e della instabilità segmentaria è quello posteriore, rappresentato dal fissaggio transpeduncolare e dalla fusione. Quest’ultima è raggiungibile o per via intersomatica (PLIF, TLIF) o per via postero-laterale, o combinando entrambe le vie. L’ approccio posteriore prevede il paziente in decubito genu-pettorale; dopo l’apertura del piano sottocutaneo si procede allo scollamento dei muscoli paravertebrali mediante cauterizzazione con coagulatore monopolare. Si procede quindi, prima della introduzione della vite all’interno del peduncolo, ad una cauterizzazione dello stesso ed a un livellamento mediante ferri mordiosso (Leksell). Vanno eseguiti dei controlli radiografici per determinare la posizione corretta di entrata della vite. Dopo aver posizionato tutte le viti si procede al posizionamento delle barre e all’applicazione di forze compressive-distrattive che riducano la sublussazione, eliminando il conseguente conflitto vertebro-midollare.

L’approccio anteriore (ALIF) prevede una metodica transperitoneale più complessa e con maggiori complicanze post-operatorie ed una metodica extaperitoneale che prevede lo scollamento della faccia anterolaterale del peritoneo e la sua retrazione. Generalmente tale via è contemplata solo in casi di olistesi di basso grado dove l’obiettivo principale è la stabilizzazione e la fusione senza la decompressione. Negli ultimi anni le procedure di inserimento delle viti trans peduncolari possono essere eseguite per via mini-invasiva e percutanea con un recupero post-operatorio più veloce e una più precoce mobilizzazione del paziente.